di Pierangelo Colombo

mercoledì 2 maggio 2018

Incontro con l'autrice; Aurora Cantini


L’intervista di oggi si collega alla rubrica La Grande Guerra, infatti, la poetessa Aurora Cantini ha accettato un incontro incentrato proprio sulla memoria. Autrice della struggente lirica Come una fiamma accesa, oltre al memoriale dallo stesso titolo, pubblicato in occasione del Centenario dell’inizio del conflitto italo austriaco, la poetessa  si è resa disponibile a rispondere ad alcune domande riguardanti la sua esperienza.

 
Cantini Aurora, poetessa e narratrice di storie create sul selciato o ascoltando i suoni del bosco già da bambina, Aurora Cantini vive a cavallo tra la Valle Seriana e la Valle Brembana, Orobie Bergamasche.
Scrive da quando avevo 9 anni, e prima ancora inventava i versi davanti alla finestra, guardando la neve cadere e immaginando farfalle che danzavano.
La prima poesia è apparsa sulla rivista nazionale “Primavera” quando aveva appena 14 anni.
Ha al suo attivo la pubblicazione di 4 sillogi di poesie: Fiori di campo, Edizioni Il Grappolo Salerno 1993 (rieditato nel 2011), Nel migrar dei giorni Edizioni La Conca Roma 2000, Uno scrigno è l’amore editato Circolo Culturale Identità Pontedera 2007, Oltre la curva del tramonto Lietocolle 2014. Nel 2009 ecco il primo libro di narrativa Lassù dove si toccava il cielo Edizioni Villadiseriane Bergamo, sulla vita contadina del passato in Valle Seriana, presentato a Roma dalla giornalista di Rai1 Alma Grandin allo Spazio Bergamo dell’Arciconfraternita dei Bergamaschi. Nel 2012 è uscito il romanzo Come briciole sparse sul mondo per Aletti Editore sulla tragedia delle Torri Gemelle vista da chi era nella Torre Nord. Sempre nel 2014 il libretto Un campo di stelle il mio riposo in memoria del mistico Questuante Cappuccino Fra Pacifico da Amora, frazione di Aviatico Bergamo (1883 – 1937) Edizioni Villadiseriane. Nel 2015 in occasione del Centenario della Prima Guerra Mondiale, per le Edizioni Villadiseriane è uscito il memoriale Come una fiamma accesa in memoria dei fratelli Carrara di Amora di Aviatico, Bergamo, e del loro sacrificio nella Grande Guerra (3 alpini -un Sergente- e 1 fante, prozii dell’autrice). Nel 2016 per Silele Edizioni esce il romanzo Il bambino con la valigia rossa, la storia del piccolo Pietro raccolto dai gendarmi nei primi giorni di gennaio del '44 dopo che la madre l'aveva lasciato solo, e consegnato al Brefotrofio di Bergamo.
Nel 2018, in occasione del 25° anniversario dalla prima pubblicazione, è uscito il secondo romanzo per Silele Edizioni “Una tra i Mille, Anita” dedicato agli ultimi giorni di Anita Garibaldi in un intreccio con i Garibaldini bergamaschi e le donne che un tempo lavoravano in filanda.
Nel 2000 ha avuto il conferimento del titolo onorifico di “Cavaliere per la poesia” e la qualifica di “Poeta insigne” a Roma, “per i meriti faticosamente acquisiti e imperniati sulla crescita culturale del nostro Paese senza l’aiuto dei mass-media” redatto dall’Associazione Culturale “Lago Verde” Roma
Numerosi primi posti a concorsi letterari, tre medaglie d’oro (2 in poesia e 1 in prosa), inserita in antologie di poeti contemporanei, molti interventi nelle scuole sul tema della poesia, con conferenze sulla Prima guerra mondiale e sulle Torri Gemelle. Fa parte dei comitati di giuria di vari concorsi letterari. Collabora da esterna con vari siti web di letteratura e del territorio. La si può seguire sul blog: http://acantini.altervista.org/


-Innanzitutto la ringrazio per la disponibilità dimostrata. Possiamo darci del tu?
-Certamente!


-Come accennavo sei l’autrice della splendida Come una fiamma accesa, come è nata questa poesia?
-Questa poesia è nata quando, con sorpresa e dopo tante ricerche, ho ritrovato il medaglione doppio che la mia prozia Lugarda Carrara portava al collo da sempre: raffigura i suoi due fratellini più piccoli, morti a venti anni esatti nella Grande Guerra, Vittorio Emanuele Enrico e Fermo Antonio. In particolare è stato Fermo Antonio che mi ha colpito come una freccia quando ho tenuto in mano quel medaglione dopo cinquant’anni. È stato dichiarato disperso il 2 agosto 1916 sul Rombon durante una discesa in parete. Sono rimasta talmente frastornata dai suoi occhi che sembravano chiedermi di non dimenticarlo che, giunta a casa, ho scritto di getto i versi della poesia. Sembrava che lui guidasse la mia mano.

Carrara Fermo Antonio in una foto prima della chiamata al fronte, medalgione conservato fino alla morte dalla sorella maggiore Lugarda   

-Oltre che una lirica, Come una fiamma accesa, è anche un memoriale, pubblicato nel 2015, dedicato a dei tuoi prozii caduti durante il conflitto del 15-18, ce ne vuoi parlare? 
-La storia è lunga e tragica. Maddalena e Angelo Carrara di Amora Bassa, Aviatico Bergamo, ebbe 12 figli, di cui 5 figli mandati al fronte sui 6 maschi di casa. Dei 5 ragazzi in guerra tre morirono direttamente in battaglia (uno per ogni anno di guerra), Fermo Antonio, Alpino, del Battaglione ValCamonica precipitò dal Rombon la notte tra l’1 e il 2 agosto 1916 durante una missione esplorativa e non fu mai più ritrovato. Aveva vent’anni. Enrico Vittorio Emanuele, Fante, esplose per granata durante la presa del Monte Santo il 14 maggio 1917 e non ci furono resti. Aveva vent’anni.
Giovanni Agostino, Alpino, morì sulla Cima Presena la sera del 23 giugno 1918 colpito alla nuca da un cecchino mentre andava a prendere l’acqua. Fu frettolosamente sepolto a Ponte di Legno in tomba provvisoria durante una pausa degli scontri e poi messo nel 1936 nel Sacrario del Tonale tra gli Ignoti, essendo scomparsa l'identificazione della tomba. Aveva 32 anni e una giovane moglie.
Il quarto, Sergente Alpino Elia Celestino, morì a casa tra atroci dolori fisici e mentali dopo aver trascorso 41 mesi al fronte, prima sul Rombon (dove dovette assistere alle inutili ricerche del fratellino Fermo mandato in una missione esplorativa e dove venne ferito ad un ginocchio durante una battaglia) e poi sull'Adamello, dove gli morì tra le braccia il fratello Giovanni nel giugno del '18. La giovane moglie, che aveva sposato a sedici anni quando era Carabiniere Reale a Vercelli, impazzì di dolore e venne internata in manicomio a Vercelli per tutta la vita.
Il quinto fratello, Bernardino, uno dei Ragazzi del '99, venne mandato al fronte nonostante ci fossero già 4 fratelli,  di cui 2 già caduti, e venne posto in congedo solo il 7 aprile 1920,
quando era già morto anche il papà Angelo di crepacuore nell'ottobre del 1919.
Fu l'unico che riuscì a morire di vecchiaia nel 1986. Tutto rimase sulle spalle della loro mamma Maddalena. Dei fratelli nessuna tomba, nessun corpo, di loro più nulla è rimasto, né le lettere, né tutte le loro medaglie compresa quella alla mamma per la gratitudine della nazione, né i loro cappelli, né i loro oggetti, né le loro divise. Nessun funerale. Solo lo straziante ricordo che sempre le sorelle, tra cui mia nonna Angelina, hanno portato avanti.

 
-La memoria storica è essenziale per la società, in quanto potenziale antidoto contro il ripresentarsi di nazionalismi estremisti e xenofobia. Secondo te, alla luce degli ultimi avvenimenti, in cosa si è mancato nel tenere viva questa memoria?
-Ho visto sulla mia pelle cosa vuol dire davvero “dimenticare”, lasciare che nessuno parli più di quei ragazzi di cento anni fa. Sono convinta che siano venuti meno la pazienza e il rispetto, nella fretta di lasciarsi dietro il vecchio, l’inutile, cercando il presente a tutti i costi, perché “bisogna stare al passo con i tempi” e le cose passate non servono più. È successo anche con gli oggetti contadini, verso gli Anni Settanta, nell’avanzare dell’industrializzazione, si sono svuotati i solai e le cantine, buttando via tutto quello che non serviva più, superato, antico, per non ricordare, per dimenticare, per annullare la vita passata.


-La poesia possiede ancora la forza di smuovere le coscienze?
-La poesia HA il compito di smuovere le coscienze, ma diventa sempre più difficile, è come invischiata dal fango. La voce della poesia è una voce gentile, leggera, e ormai in tutto questo frastuono che rimbomba, dove tutti gridano e si scannano, nessuno ci fa più caso, non avverte nemmeno più la sua voce. E la coscienza è uccisa. Eppure non dobbiamo rinunciare a portare la poesia in mezzo alla gente, nelle strade, dobbiamo continuare a farlo, a tentare, a insistere. Soprattutto lavorando sui ragazzi, facendo loro amare la poesia e la cultura, gettando semi che qualcuno raccoglierà, affinché qualcosa rimanga.  



-La prima guerra mondiale ha formato, e segnato, molti autori che in seguito hanno messo in prosa o poesia la propria esperienza; c’è un autore particolare o un libro che più ti ha colpito?
-Io scrivo poesie da quando avevo 10 anni, ma il merito è anche di un uomo, Giuseppe Ungaretti, che mi ha plasmato. Non è una coincidenza se le prime poesie che ho adorato sono Fratelli o Veglia o San Martino sul Carso o anche Soldati. Impazzivo di pianto nel leggerle, e poi scrivevo anch’io pensieri di emozione rivolti a quei ragazzi caduti nel silenzio delle alture straniere…

 

-Se ricordo bene, ti prego di correggermi, una sezione di Alpini ha portato una copia della tua poesia sul luogo dove è caduto uno dei tuoi prozii. Hai voglia di raccontarci esattamente la cerimonia e cosa ha rappresentato per te?
-Massimo Peloia è un socio alpino della Sezione ANA di Saronno. Si è sempre interessato alle vicende  terribili e drammatiche della Prima Guerra Mondiale, dedicando attenzione particolare ai dimenticati eroi del Battaglione alpino ValCamonica, 5° Reggimento alpino.
Combatterono sul Cukla (1776 metri) e il Rombon, che raggiunge i 2.208 metri di altezza, accanto al Romboncino, a quota 2105. Massimo Peloia e un folto gruppo di alpini e rappresentanti ha voluto salire fin lassù, al confine con la Slovenia, per rendere omaggio alle migliaia di ragazzi lanciati nell’impeto delle battaglie, strappati alle loro case, alla loro vita di gioventù, molti di essi mai più tornati a casa. Era uno dei fronti di guerra “forse la più ingrata del nostro schieramento alpino” come disse il Generale Cadorna. Il Cukla e Rombon rimasero quasi sempre in mano agli Austriaci e più volte vennero invano attaccati dagli Italiani. Solo il Cukla divenne italiano, anche se solo per pochi mesi, tra il 1915 e il 1916. Ma in generale ci furono incessanti e sanguinosi tentativi che portarono solo esiti drammatici, con innumerevoli Caduti. L’epilogo fu dato la sera del 24 ottobre 1917, dopo la disfatta di Caporetto, quando le truppe italiane abbandonarono per sempre il Cukla – Rombon.
Lassù rimasero soltanto le anime dei tantissimi ragazzi morti in combattimento. Tra essi il giovane alpino bergamasco Fermo Antonio Carrara, terzultimo di cinque fratelli mandati in guerra. (mio prozio). Quella notte tra l’1 e il 2 agosto 1916, aveva 20 anni e pochi mesi. Gli venne comandato di uscire con altri cinque compagni per cercare una via di accesso al Rombon, una missione esplorativa richiesta dal Comando Militare. Dovevano scendere dal Romboncino lungo una parete impervia per approdare alla Valle Mozenca e da lì conoscere appostamenti e difese nemiche. Non si saprà mai cosa successe in quella notte d’estate, nel silenzio della cordata. Fermo Antonio precipitò in uno degli Abissi del Rombon, e là rimase. Lo cercarono invano per giorni, ma non fu mai più ritrovato. Massimo Peloia, dopo cento anni, è salito fin sul baratro di quell’Abisso che divenne sepolcro del giovane soldatino. Una volta raggiunta la cima ha depositato un dono, accanto al cippo che ricorda i tanti ragazzi immolati per la libertà.
È la poesia dedicata a Fermo Antonio, “Come una fiamma accesa”. I versi letti ad alta voce sono stati trasportati dall’eco lungo il vento del ricordo, della memoria, dello struggente doloroso silenzio mentre suonava il silenzio. La poesia è stata infine lasciata nella cassetta di metallo in cima al Rombon, che contiene il libro di vetta dove gli escursionisti lasciano la loro firma, così da ricordare il giovane Carrara e tutti gli altri soldati Caduti.
 
Massimo Peloia in cima al Rombon con la poesia  

-Diversamente al secondo conflitto, in cui il ruolo delle donne, specie nella lotta di resistenza, è stato ben rappresentato, nella Grande Guerra lo stesso ruolo sembra defilato, poco approfondito, eppure gran parte delle donne si trovarono a sostituire gli uomini in molte attività che fino ad allora erano state prerogativa esclusivamente maschile; qual è la tua opinione a riguardo?
-La mia bisnonna Maddalena ha perso quattro figli e il marito, ma non ha mai pianto. Diceva mia nonna che continuava a pregare, al lavatoio, sul sentiero, vicino alle cappellette, la sera prima di addormentarsi. Pregava e parlava con i suoi figli morti. Senza marito dovette rimboccarsi le maniche, mostrarsi forte, decisa, salda. Aveva altri 8 figli da seguire. La mia prozia Margherita Pierina impazzì di dolore giovanissima e venne ricoverata in manicomio, dove vide lo stato devastante delle migliaia di soldati resi folli dalla guerra. Rimase in manicomio per quarant’anni, e l’unico momento di lucidità era dato quando chiamava il suo alpino, “l’alpinazz” in dialetto piemontese, suo marito, il grande alpino Sergente Elia. L’altra prozia, Gioachina, dovette andarsene dalla casa del marito morto, Giovanni, non c’era più posto per lei, era una bocca in più da sfamare. Dovette cercarsi un nuovo marito. Molte ragazze delle montagne diventarono manodopera silenziosa per continuare a occuparsi della campagna e delle mucche.
Altre scendevano a Bergamo come volontarie nell’ospedale territoriale della CRI. Là giunsero molti dei ragazzi di Selvino e Aviatico che ben conoscevano e che morirono tra le loro braccia. Per non dimenticare le portatrici carniche, io penso sempre che avranno aiutato anche solo uno dei miei 5 prozii, li avranno consolati, li avranno ascoltati e ci avranno parlato, i miei prozii in dialetto bergamasco, e loro in dialetto friulano. La mia bisnonna ricevette solo una medaglia “per la gratitudine della Nazione”. La forza di quelle giovani donne silenziose ha permesso di portare avanti la vita. Sono loro le “vere” eroine di quegli anni, altrimenti una intera generazione si sarebbe cancellata dal tutto. All’istante.





-La Nostra generazione è forse l’ultima ad avere ascoltato dalla voce dei nonni i loro racconti sulla vita al fronte. Un testamento consegnatoci come monito, una responsabilità a cui non possiamo sottrarci. Ti è mai capitato di tramandare questi ricordi ai giovani? Quali reazioni ha ricevuto?
-Vado nelle classi terze delle scuole secondare a portare “Oltre la polvere del silenzio”, due ore di immagini e racconti in cui do vita alle emozioni di quei ragazzi di cento anni fa. Dico subito agli studenti di immaginare i loro fratelli o cugini più grandi, nati negli anni Novanta, solo proiettati indietro di cento anni. Questo li sconvolge. Il fatto che si parli di un periodo così lontano nel tempo e nello spazio vissuto, ci spinge a dimenticare che quei ragazzi, immortalati per sempre in fotografie sgranate e ingiallite, erano ventenni come lo possono essere quelli di oggi, RAGAZZI, leggeri e fragili come vetro, pieni di sogni, di ardori, ma anche impulsivi e spericolati, come  sono TUTTI I RAGAZZI a quell’età, di ogni epoca, di ogni strada, di ogni colore.
Vederli impettiti in divise di due taglie più grandi, con la brillantina sui capelli e la scriminatura a lato, seri e posati, già così adulti nella postura accanto alla poltrona o davanti alla caserma, dai nomi di battesimo ormai in disuso, ce li rende più anziani di quello che non fossero realmente, e tendiamo a non ricordare i loro pochi anni di respiro su questa terra. Vedo gli occhi degli studenti riempirsi di lacrime, il respiro che quasi si blocca. Due ore filate in cui nessuno si muove, inchiodati alla sedia mentre li porto lassù, su quelle cime a tremila metri dove neanche le aquile vivrebbero. Ma dove centinaia di migliaia di ragazzi poco più grandi di loro ancora dormono nel ghiaccio.

 
Medaglione con i volti dei due fratelli Carrara Caduti a 20 anni
 
-Quest’anno ricorre il centenario della fine di quell’assurdo massacro; ci sono dei progetti cui stai lavorando o a cui vorresti partecipare?
-Il mio sogno è vedere realizzati i cartelli che indichino ai turisti “Amora Bassa, borgo natale dei fratelli Carrara combattenti e caduti nella Grande Guerra”, che la visita alla loro casa diventi una tappa per i villeggianti. Il 17 febbraio dello scorso anno sono andata a ritirare le cinque medaglie ai fratelli Carrara a Gonars, una cerimonia solo per loro, un pullman di parenti e amici, in testa il nostro Sindaco. L’emozione più grande è stata data dal fatto che eccezionalmente il direttivo del Coordinamento Albo d’Oro ha ritenuto meritevole di medaglia commemorativa anche il quinto fratello, perché “sacrificò la sua giovinezza e innocenza per amore della Patria, pur avendo già perso tre fratelli in battaglia. Siamo stati accolti e scortati dalla polizia al nostro arrivo e ci hanno riservato una accoglienza da star. Ora spero che la sezione di Bergamo parli di loro. Li inserisca nei suoi progetti,  porti avanti l’idea di una via in città anche per loro.

Bernardino Carrara con la fascia alutto e le 3 stelle dei fratelli morti al fronte

-Ci regaleresti il piacere di poter ascoltare la tua poesia?
-Certamente.
 





 

Nessun commento:

Posta un commento